Il calice del vino

   

 

Per comprendere correttamente il sacramento dell'eucaristia non si prende l'avvio dal tabernacolo, ma dall'altare, o meglio si prende l'avvio dalla celebrazione eucaristica in atto. Nel tabernacolo infatti, per ovvi motivi di conservazione, non soltanto è custodito un unico elemento, il pane (segno sufficientemente eloquente per esprimere la presenza e l'azione permanente del Risorto in mezzo a noi fino alla fine dei secoli), ma questo segno rischia di essere considerato isolato dal suo contesto originario che ne esplicita meglio il messaggio.

L'eucaristia non si limita a significare una presenza in modo statico, semplicemente come realtà da contemplare e da adorare. Il Risorto infatti si rende presente nell'eucaristia per radunare la sua Chiesa, per parlare ad essa, per donarsi ad essa come cibo e per questo le norme ricordano che «per ben orientare la pietà verso il santissimo Sacramento dell'Eucaristia e per alimentarla a dovere, è necessario tenere presente il mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, sia nella celebrazione della messa che nel culto delle sacre specie conservate dopo la messa per estendere la grazia del sacrificio» (Premesse al culto eucaristico n. 4).

 SEGNO DELLA GIOIA E DEL SACRIFICIO

  Per questo non è possibile comprendere in pienezza il significato dell'eucaristia senza tenere presente anche il segno del calice e del vino, che tanto spazio trova nel linguaggio stesso di Gesù quando parla del suo regno e del suo sacrificio per sigillare la nuova ed eterna alleanza. «Non si mette vino nuovo in otri vecchi» (Mt 9,17). «Potete bere il calice che io sto per bere?» (Mt 20,22).

Già soltanto queste due frasi evidenziano la ricchezza simbolica del calice e del vino sui quali, non senza ragione, vengono pronunciate le parole dell'istituzione con una formula più articolata di quella pronunciata sul pane così da far emergere il fondamentale significalo sacrificale dell'eucaristia: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me». Parole che affondano le loro radici in quella storia del popolo d'Israele nel quale Dio ha incarnato e reso visibile il suo messaggio fino alla sua ultima Parola, il Signore Gesù, il Verbo fatto uomo. Ora il vino era per il popolo d'Israele segno della prosperità e della vita, segno dell'amore di Dio, ma soprattutto, nel contesto rituale, era segno delle promesse messianiche e del loro compimento alla fine dei tempi (cf Am 9,14;Os2,24;Is25,6).

Non a caso Gesù inizia la sua missione trasformando a Cana l'acqua in vino per annunziare che sono iniziati i tempi nuovi e che si stanno per realizzare le promesse di Dio.

Ma se il vino nel calice è segno della festa messianica, esso è anche segno dell'amarezza della vita; amarezza che deve essere bevuta fino all'ultima goccia: «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11). «Padre, se vuoi, allontana da me questo Calice» (Lc 22,42).

È in questa ambivalenza del segno che deve essere interpretata la presenza del calice nella celebrazione della pasqua ebraica come nella celebrazione dell'eucaristia cristiana, dove si fa memoria di un dono luminoso che passa però attraverso un esodo faticoso, attraverso la croce: «Ogni volta che bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11,26).

Il vino e la dimensione sacrificale dell'eucaristia Se la messa, fin dall'epoca in cui furono scritti gli Atti, viene identificata soprattutto nel gesto conviviale della frazione del pane (cf At 2,46), è tuttavia nel simbolo del calice che i Padri della Chiesa fanno soprattutto riferimento per spiegare il significato e il valore sacrificale dell'eucaristia.

La comunione sotto le due specie, che si mantenne in occidente per tutti fino al XII secolo e in alcuni luoghi anche oltre, richiamava continuamente questo aspetto sacrificale che è il fondamento dell'alleanza. È del resto sintomatico che contemporaneamente alla scomparsa della comunione al calice per tutti i fedeli (il che è avvenuto anche per ovvie ragioni pratiche), l'aspetto sacrificale ha finito per essere tutto concentrato sul segno del pane. Si venne così ad attenuare il suo originario e primario significato conviviale di fraterna comunione e condivisione nel Cristo risorto e il segno del pane venne sempre più considerato come simbolo del corpo di Cristo morto in croce.

Da qui tutte quelle devozioni medievali che tendono a circondare l'eucaristia di aspetti sepolcrali e dalle quali sono sorte, ad esempio, le Quarantore in riferimento al tempo durante il quale si ritiene che il corpo di Gesù sia rimasto nel sepolcro. Da questa particolare accentuazione sacrificale riferita al segno del pane nasce anche il malinteso dei "sepolcri" il giovedì santo; aspetto che oggi è esplicitamente condannato: «II tabernacolo o custodia non deve avere la forma di sepolcro. Si eviti il termine stesso di sepolcro; infatti la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il pane eucaristico per la comunione che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore» (Congr. per il Culto Divino, Prep. ecelebr. delle feste pasquali, n. 55).

 SEGNO DELL'ALLEANZA

  Ora la riforma liturgica del Concilio Vaticano II ripristinando, pur con tutte le difficoltà, la comunione sotto le due specie per tutti i fedeli (PNMR 242; Precisazioni CEI n. 10) ha voluto ridare vigore al segno del calice e del vino. Non è casuale che la solennità del Corpus Domini si chiami oggi, più correttamente, solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo. Inoltre giustamente le nonne pongono il calice al pruno posto tra i vasi sacri, insieme con la patena (PNMR 289). Una lunga tradizione contraria, esasperata in particolare dalla polemica contro i protestanti, ci ha portati un po' lontano da una feconda sensibilità verso il simbolo del calice e del vino, nonostante la preziosità e la grandezza dei calici barocchi e i numerosi riferimenti al calice sulle immaginette di carattere devozionale...  

UN SOLO CALICE

  L'attuale normativa sollecita invece una maggiore e più corretta attenzione verso questo segno liturgico che permette ricchi e profondi riferimenti biblici in vista di una più corretta ricezione del messaggio eucaristico, in particolare per quanto riguarda il tema dell'alleanza, che è fondamentale per la fede cristiana. Il vino infatti, per le sue stesse caratteristiche naturali, richiama il sangue e alla luce della Parola di Dio diventa richiamo della passione e morte di Cristo; quindi un chiaro riferimento a quell'alleanza indissolubile che Dio ha preannunciato al Sinai (cf Es 24,8) e realizzato in pienezza al calvario (cf Eb 9). In relazione a questo richiamo visivo è interessante sapere che l'uso del vino bianco si è imposto e diffuso soltanto nel secolo XVI, per una ragione pratica, a motivo delle introdotte purificazioni, per non sporcare i lini...

Nel contesto della riforma conciliare che mira a dare verità ai segni non è pertanto del tutto superfluo usare almeno qualche volta anche il vino rosso. È poi sintomatico che nella consapevolezza dell'importanza dei segni per comunicare con incisività il messaggio, le norme si preoccupano anche dell'unicità del calice: «Per sottolineare la partecipazione all'unico pane e all'unico calice, si abbia cura di preparare, per quanto possibile, un'unica patena e un unico calice" (Messale Romano, Precis. CEI, n. 4). Proprio l'importanza simbolica del calice e la sua dignità sconsigliano il tentativo talvolta messo in atto da qualche artista di unire in un solo oggetto, soprattutto in funzione della comunione sotto le due specie, patena e calice dando così vita ad una strana composizione da far concorrenza ai più moderni ed estrosi strumenti per la cucina! Nella celebrazione liturgica non è alla comodità e all'efficienza che bisogna guardare, ma alla dimensione simbolica. È quindi importante che il segno del calice e del vino emerga chiaramente nella celebrazione dell'eucaristia per poter incidere nelle profondità dell'animo ed essere anche oggetto di una seria e ampia catechesi su quell'alleanza indissolubile che Dio ha sigillato con noi nel sangue di Cristo. Alleanza che noi siamo chiamati a ratificare in qualche modo bevendo a nostra volta il "calice" nell'offerta quotidiana di noi stessi, nell'impegno della carità, affinché il calice del Getsemani diventi anche per noi, come per Cristo, calice traboccante di gioia senza fine (Sai 23,5), nell'attesa che si compia la "beata speranza", la promessa fatta da Cristo nell'ultima cena: «Da ora non berrò più di questo frutto della vita fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). 

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